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QUELLO CHE QUALCHE AMICO CI HA SCRITTO
Marco Martinelli 30/11/03
Sicuramente parlare di Karate, pensando che sia solo uno Sport, limita in modo sostanziale i riflessi positivi di tale attività globale sia sulla mente (Ki) che sul corpo (Ai). Non si può certamente considerare un qualsiasi sport come fine a se stesso, tanto meno il Karate, che andrebbe considerato come uno stile di vita.
E’ ovvio che bisogna scrollare dalla filosofia medievale Giapponese alcuni anacronismi, per produrre una nuova filosofia sportiva, attualizzata all’epoca e alla cultura occidentale. Il modello a cui faccio riferimento nasce in una palestra perugina, dove un gruppo di amanti di questa arte, ha continuato una tradizione decennale introdotta dall’Oriente. Questo a permesso di mitigare gli anacronismi, svecchiandoli e snellendoli. Non si deve credere che questa sia una realtà assoluta, ma semplicemente una realtà vissuta. Gli atleti divenuti maestri per generazioni, si sono tramandati gli insegnamenti creando un rapporto particolare tra uno sport individuale come questo e il gruppo. L’onore e il rispetto si sono proposti in un nuovo ambito, privo di differenze sociali, legate al servilismo medievale, ma si sono proiettati sull’atleta, l’avversario e il gruppo, inserendo un nuovo elemento al dualismo storico di chi combatte.
Il maestro (Sen Sei) acquista in questo contesto un ruolo di padre sportivo, che media virtualmente con il gruppo dagli allenamenti ai risultati la vita dell’atleta. Come il padre ripone nel figlio stesso le sue speranze, così il Sen Sei trasla sul SUO atleta il suo Ki (mente, intesa come pensiero). Facendo si che tramite l’allievo continui la figliolanza di quest’arte. Naturalmente questo genera nei due sensi un’empatia tale da trascendere il rapporto personale. Pertanto all’interno del Tatami (quadrato di allenamento) l’onore del maestro è preservato e conservato dall’allievo, dalle sue azioni non solo sportive, ma comportamentali in toto. A dimostrazione che non serve per sopravvivere, ma il Karate serve alla vita. Qui si inserisce il rispetto verso il tatami, l’avversario il maestro e il gruppo. Non potendo tralasciare nulla al caso l’allievo dimostra con il rispetto la sua appartenenza al gruppo, che è il generatore di questo codice non scritto. Ma a sua volta diventa maestro, inteso come esempio, per i giovani neofiti o per le cinture inferiori.
Il maestro non esce da questo circolo, creando il giusto rapporto con il suo allievo; trasferendo su di lui la speranza che sia il continuatore del suo Ki e tramite il corpo dell’allievo del suo Ai; fondando una scuola di pensiero, poi di vita e infine sportiva. A questo punto i rapporti al di fuori del Tatami, si trasformano inevitabilmente, dando origine ad una amicizia basata sul rispetto, che non vuol dire formalismo, tutt’altro!! E’ un amicizia dove entrambe le parti possono contare senza sconti alcuni sulla contro parte, perché disinteressata. Ma il gruppo? Il gruppo rappresenta per trasposizione il maestro o l’allievo. Il fallimento dell’uno o dell’altro corrisponde al fallimento del tutto. Il singolo viene assorbito dal gruppo senza perdere la sua identità nel rispetto di quella degli altri. Bisogna pertanto far si che le parti scendano ad un compromesso che moduli le personalità. Chiunque voglia imporre la sua, viene automaticamente escluso dal gruppo per difesa dell’identità globale. L’identità globale rappresenta il codice d’onore non scritto che chiude il cerchio.
Ognuno è maestro e allievo a secondo del momento, sempre nel rispetto del codice d’onore proposto dal gruppo.